lunedì 19 agosto 2013

L'odore venuto dallo spazio




Uno strano odore si era diffuso nell'aria intorno al bosco di San Rocco, un odore che gli abitanti non avevano mai sentito prima. Un odore, a dire il vero, che nemmeno i pochi turisti che ogni estate si trasferivano nella piccola località montana per sfuggire al caldo delle estate padane avevano mai sentito.

L'olezzo si era diffuso da circa un paio di settimane e la gente reagiva alla sua presenza nelle maniere più disparate. Alcuni non lo potevano sopportare e si tenevano debitamente alla larga dal bosco. Altri, invece, lo tolleravano, seppur a fatica. Soprattutto chi era solito andare a funghi ed era elettrizzato da quella improvvisa mancanza di raccoglitori rivali.

Non poteva, ad ogni modo, definirsi un odore “cattivo”, o almeno non nel senso che abitualmente si dà alla parola “cattivo”. Era semplicemente un odore “diverso”, estraneo all'esperienza umana. Alieno.
Non a caso, le più folli e immaginifiche leggende si erano diffuse negli ultimi giorni insieme a – e su – quell'odore. C'era chi parlava di una carcassa dalle strane fattezze avvistata in un fosso a un chilometro dall'ingresso del parco naturale di San Rocco, nella zona est del bosco. Chi, ancora, sosteneva di aver visto uno oggetto simile a un gigantesco guscio di lumaca nel folto della macchia – un maleodorante artefatto dalla superficie viscida, lo aveva definito Walter Segala, l'allevatore che aveva osservato l'oggetto di persona durante una passeggiata nel sottobosco col figlio. E poi, infine, c'erano quelli che avevano parlato di una creatura bizzarra, di cui non erano riusciti bene a scorgere le caratteristiche, ma che avevano assicurato che era viva e vegeta, altro che carcassa.

Tutti questi avvistamenti erano stati catalogati come deliri di contadini ubriachi dalle autorità locali, anche se il Segala era notoriamente astemio, e pertanto si era deciso di non procedere. “L'odore – aveva detto il capitano dei Carabinieri di stanza nel vicino paese di Laverone – è sicuramente prodotto da una carcassa animale, probabilmente quella di un orso”. “Faremo il possibile per trovarla”, aveva concluso, ma in realtà nessuno aveva voglia di addentrarsi nel bosco per portare a termine le ricerche. Più che altro, nessuno ne aveva il fegato. Soprattutto dopo i più recenti sviluppi.

Da tre giorni, infatti, era sparito un ragazzo. Marcello Valle, di sette anni, stava giocando poco distante dalla villetta di famiglia, sul limitare del bosco. I suoi erano originari del posto e non avevano alcuna paura a lasciarlo da solo, erano abituati. Oltretutto, la madre, Tiziana, riusciva a vederlo in lontananza dalla finestra della cucina e ogni tanto lanciava un'occhiata per vedere se fosse ancora lì. E poi, diciamocelo, che pericolo poteva esserci a giocare da soli vicino al bosco in un bel pomeriggio d'estate? Animali feroci non ce n'erano più, ormai, e i pochi rimasti – ma si parlava più che altro di volpi e faine – si tenevano ben lontani dall'Uomo.

Solo che a un certo punto la madre di Marcello aveva alzato gli occhi e non lo aveva visto più. Subito dopo aveva corso a perdifiato attraverso la radura e fino al limitare del bosco. Del figlio piccolo, nessuna traccia. Trovò solamente il mantellino rosso con cui Marcello aveva giocato a supereroe fino a poco prima.

La teoria dei Carabinieri fu che Marcello fosse stato attirato da qualcosa all'interno del bosco e, dopo essersi sfilato il mantello perché si impigliava negli ispidi cespugli che doveva attraversare, si era addentrato nel buio del sottobosco e poi si era perso. Le ricerche, anche in questo caso, si erano concluse dopo quarantotto ore con un nulla di fatto. Il padre di Marcello, Sergio Valle, un tizio ben piazzato dalla mascella quadrata, che in paese chiamavano “il professore”, perché aveva studiato agraria all'università di Trento e con quelle conoscenze aveva messo in piedi un allevamento che aveva vinto parecchi premi e lo aveva ampiamente arricchito, al termine delle ricerche aveva fatto irruzione nella sede dei Carabinieri. Aveva sbattuto la sua manona sulla scrivania del capitano, sbraitando accuse all'Arma, definendoli degli incompetenti pigri e in malafede, minacciando di spaccare la testa al capitano con i ciocchi di legna da ardere se mai avesse osato anche solo avvicinarsi alla sua proprietà. Questo gli costò una denuncia per vilipendio a pubblico ufficiale e la rimozione violenta della sua persona, che scalciava e gridava in preda all'isteria, dalla stazione, ma non convinse i pubblici ufficiali a muovere un dito per ritrovare il piccolo Marcello.

Così, spinto dall'esasperazione, Sergio Valle imbracciò il fucile da caccia che teneva chiuso a chiave nel capannone delle vacche (per evitare che Marcellino lo potesse trovare) e, insieme al figlio quindicenne Nicola, si avviò verso il bosco dopo aver baciato in fronte la moglie e averla rassicurata che sarebbe andato “tutto bene”. Erano le sette e mezza di sera, ed erano passate solamente due ore dalla sortita di Valle alla stazione dei Carabinieri. La moglie aveva consigliato all'uomo di attendere almeno la mattina seguente, salvo poi concordare con lui che ogni minuto che passava poteva essere fatale per il loro bambino.

Sergio e Nicola si addentrarono nella boscaglia con incedere sicuro. L'odore si faceva più intenso a ogni passo, impregnava le foglie, si depositava in sacche purulente nei cespugli e viaggiava a dorso delle ali delle farfalle, librandosi tra le cime degli alberi e sfuggendo solo in parte all'intrico della vegetazione, che per la maggior parte lo teneva intrappolato tra le sue verdi braccia, come un enorme ragno fronzuto avvinghiato alla preda. Sciami di moscerini impestavano l'aria, già pesante di per sé, e rendevano difficile il cammino a padre e figlio che, per inciso, erano tra quelli che mal sopportavano l'odore. Ironia della sorte, erano stati tra quelli più esposti alla puzza, per la vicinanza della loro villetta al limitare del bosco.




“Stammi vicino”, disse Sergio al figlio. Sottintendeva: “Non è il caso che perda anche te qui dentro”, ma non lo disse, perché Sergio Valle era un uomo, sotto molti aspetti, all'antica, e riteneva che tra uomini certe cose non andassero dette. L'uomo e il ragazzo avanzarono con fatica attraverso la fitta vegetazione: chiaramente quella parte di bosco non era mai stata percorsa da molta gente e quindi mancavano dei sentieri a misura d'uomo. Finalmente, però, la vegetazione cominciò a diradarsi, finché Sergio e Nicola non sbucarono in una piccola radura circolare. Sopra di loro, l'ultimo sole della sera penetrava attraverso i rami, illuminando debolmente il terreno, ricoperto da strati di foglie morte. I due rimasero improvvisamente ammutoliti a fissare un minuscolo oggetto che si trovava a pochi passi da loro, sul lato opposto della radura. Era mezzo sepolto dalle foglie e giaceva scorato come un cane dimenticato dal suo padrone. Si trattava di una scarpa Converse azzurro chiaro, come quelle che indossava Marcello al momento della sua scomparsa.

Superato lo sbigottimento, Sergio si avvicinò con circospezione, come se si attendesse un qualche genere di reazione da parte della calzatura inanimata. Infine, la prese in mano, sollevandola dal letto di foglie ed esaminandola da vicino. Era intatta, e questo gli era di un qualche strano conforto che non riusciva a spiegare... forse si era aspettato che fosse slabbrata come se il bambino fosse stato attaccato da una bestia selvatica. Ma non lo era, anzi, pareva che semplicemente l'avesse persa camminando nel bosco.

I due proseguirono nel loro cammino e si ritrovarono nuovamente immersi nei cespugli, anche se stavolta trovarono una sorta di camminamento che permetteva loro di muoversi con maggiore facilità rispetto a prima della radura. Nel frattempo, il sole era calato del tutto e l'odore si era fatto ancora più intenso. Nicola cercò di distrarsi dalla loro infausta missione riflettendo sulla natura di quell'olezzo. Non riusciva davvero a descriverlo né a trovare paragoni convincenti. Aveva qualcosa dell'ammoniaca, ma l'ammoniaca non puzzava, almeno non nel senso che si poteva attribuire a quell'odore penetrante che li avvolgeva da ore. No, c'era qualcos'altro sotto. Era come se un camion di letame si fosse scontrato ai trecento all'ora con un tir di disinfettante per ospedali proveniente dalla corsia opposta. Ecco, gli pareva che questa fosse la definizione più calzante.

Crack. Il rumore di un legnetto che si spezza e un fruscio di cespugli in preda a una crisi epilettica ridestò Nicola dai suoi pensieri. Il padre gli poggiò una delle sue manone sul torace facendogli poi cenno di stare immobile e fare silenzio. Il movimento dietro i cespugli proseguiva e sembrava circondarli. Sergio imbracciò il fucile puntandolo in direzione dei fruscii, ma Nicola lo bloccò, e a gesti gli fece capire che poteva trattarsi di Marcello. Dall'espressione del padre, Nicola capì che non aveva fatto quella, pur semplice, associazione d'idee. Sergio abbassò immediatamente il fucile, ma restò all'erta. I fruscii proseguivano, descrivendo cerchi concentrici intorno a loro. Il buio incombente, unito alla densità della vegetazione, impediva loro di vedere più in là del naso. La tensione aumentava, ribolliva sotto la superficie della loro pelle, percorsa da brividi di freddo e paura. Infine, Sergio decise che non poteva trattarsi di Marcello, perché il bambino avrebbe già palesato la propria identità da tempo. Ma non riusciva proprio a spiegarsi quale predatore del bosco avrebbe mai adottato una tattica simile per avvicinare le prede. Qualunque cosa sia, si disse infine, meglio essere pronti. E sollevò nuovamente il fucile. Nicola lo guardava con espressione terrorizzata e gli si era completamente avvinghiato alla schiena. Proprio in quel momento, il loro misterioso assalitore emise un suono, che inizialmente raggiunse le sconvolte orecchie dei due uomini senza farsi riconoscere. Ma dopo qualche attimo, sia Sergio che Nicola capirono che si trattava di risate infantili. Le risate proseguivano insieme ai fruscii concentrici, e nella mente di Sergio si dipinse l'immagine di un bambino che saltellava in cerchio tra i cespugli, in una sorta di delirante girotondo. E la voce sembrava proprio quella di Marcello!

Così, fomentato da quell'improvviso fiotto di speranza, Sergio abbassò le difese, mandò al diavolo ogni prudenza e gridò il nome del figlioletto. La parola si librò nel mantello di muschio della notte come una manta fosforescente, echeggiando su tronchi lontani per poi zittirsi di colpo, lasciando dietro di sé un vertiginoso abisso di silenzio. Anche i fruscii e le risa erano cessati all'improvviso, e quel silenzio era ancora più spaventoso del rumore. Poi, un ultimo verso, che ricordava ormai solo di sfuggita le risa di un bambino, si innalzò dalla fitta boscaglia insieme a un fruscio rapidissimo, che tagliò il bosco in verticale perdendosi infine, con estrema velocità, tra le cime buie sopra di loro.

Il silenzio che ne seguì fu stavolta ancora più profondo e angosciante. Il buio aveva ormai inondato la vallata come una colata di bitume e Sergio estrasse finalmente dallo zaino la sua torcia elettrica. Mentre stava per accenderla, si rese però conto che ci vedeva. Non benissimo, certo, ma era come se una misteriosa luminescenza di fosse fatta strada tra la vegetazione. Una luminescenza rossastra. Sergio si voltò e vide che Nicola stava già fissando un punto poco lontano, da cui proveniva la luce rossa. I due si scambiarono un'occhiata e, senza parlare, si avviarono verso la fonte di luce, con la curiosità che rimbalzava nei loro petti al ritmo del cuore impazzito, ipnotizzati da quella visione al punto da aver dimenticato il motivo della loro spedizione.

Ma, quando raggiunsero la nuova radura, tornò loro in mente tutto. In mezzo allo spiazzo era disteso un corpicino, e non ci misero molto a capire che si trattava di Marcello. Accanto al suo corpo, completamente nudo, giaceva uno strano oggetto. Pareva rispondere alla descrizione fatta da Segala – era infatti un guscio di lumaca enorme e viscido, che, nella debole luce rossa, pareva pulsare di vita propria.




Sergio si lanciò a soccorrere il figlio e lo sollevò da terra, prendendolo in braccio. Il bambino emise uno sbuffo e poi aprì gli occhi. Stava bene. “Papà – sussurrò il ragazzino – ho fatto uno strano sogno”. “Non preoccuparti – lo rassicurò il padre – ora è tutto finito. Andiamo a casa”. Quindi si voltò verso Nicola e vide che stava esaminando il guscio. Quando gli mise una mano sulla spalla, il ragazzo trasalì. “Che cos'è?”, chiese il padre. “Non lo so, papà – disse Nicola – ma credo che sia la fonte dello strano odore”. In effetti, la “lumaca” emanava un puzzo intenso, e solo ora, dopo che la tensione che aveva preceduto il ritrovamento di Marcello si era dissolta, cominciarono a rendersi conto che l'odore che da settimane attanagliava San Rocco era più che mai acuto in quella radura. Sergio si guardò intorno preoccupato e infine disse: “Meglio andarsene in fretta da qui”. Nicola annuì e, insieme, si incamminarono per tornare da dove erano venuti. Tuttavia, poco prima che si lasciassero la radura alle spalle, Marcello aprì bocca ancora una volta, chiedendo: “Dov'è?”. “Dov'è chi?”, rispose burbero il padre. “Dov'è il signore dello spazio”. Nicola fissò Sergio con gli occhi spalancati. “Il signore dello spazio?”, chiese.

Fu allora che udirono di nuovo quel verso, a metà strada tra le risa di un bambino e il canto di un gufo. Nicola e Sergio, che teneva ancora in braccio Marcello, si voltarono di scatto e lo videro. Di fronte a loro, appollaiato su un albero, un essere deforme li squadrava con i suoi grandi occhi rossi. Aveva una testa sproporzionata rispetto al corpo e una piccola bocca che si muoveva lentamente. La schiena era ricurva e gibbosa, le braccia corte terminavano in aguzzi artigli. La sua pelle color marrone scuro era lucida e rifletteva la timida luce della luna in striature violacee. Si muoveva goffamente sul ramo come se non fosse stato abituato alla gravità di questo mondo.

Sergio e Nicola rimasero completamente paralizzati, mentre il piccolo Marcello si aggrappò con tutte le forze alle spalle del padre. Sergio, cercando di muoversi il più lentamente possibile, consegnò il figlio a Nicola e imbracciò il fucile, puntandolo contro l'essere, il quale emise una serie di brevi sibili minacciosi. Il fucile tremava nelle mani di Sergio, che ormai era semi-pietrificato dal terrore che quegli intensi occhi rossi scatenavano nelle sue membra. Il mondo esterno sembrava non esistere più: ormai c'erano solo lui e l'alieno, faccia a faccia. Una goccia di sudore prese a corrergli a zigzag lungo la tempia e quando finalmente si infranse sul sopracciglio, Sergio esplose un colpo.

Il boato lacerò la notte e causò un'immediata reazione da parte dell'essere, che, con velocità e agilità insospettabili, saltò giù dal ramo e si diresse verso il guscio. Sergio, ormai libero dall'incantesimo degli occhi del mostro, sparò un secondo colpo, mancando di poco la creatura strisciante e sollevando una nuvola di polvere e pezzi di foglie a poca distanza da esso. L'alieno sgattaiolò via e si infilò nel guscio, sparendo dalla loro vista.

Il resto accadde molto rapidamente: il guscio iniziò a illuminarsi, emanando un rosso sempre più acceso fino a sembrare incandescente come lava. Poi cominciò a vibrare e infine si alzò da terra, roteando su se stessa come una girandola impazzita. Infine, emettendo un violento muggito, si levò a velocità supersonica oltrepassando le cime degli alberi, e poi scomparì nel tetro cielo notturno, lasciando dietro di sé una scia rossastra che si dileguò in pochi minuti.

La rinnovata quiete della notte accompagnò il viaggio di ritorno di Sergio e i suoi due figli. L'odore misterioso era svanito senza lasciare traccia, portato con sé dal visitatore e dal suo grottesco mezzo di trasporto. Alle due di quella notte, Sergio, Nicola e Marcello rientrarono in casa, sconvolti, impauriti ma anche sollevati che quell'incubo fosse finito. Tiziana li abbracciò tutti, felice di rivederli sani e salvi e ancora più felice che avessero ritrovato il figlio scomparso. Consumarono, dunque, una tarda cena e poi andarono tutti a dormire insieme, nella stessa stanza. Sergio non aveva mai permesso questo, perché riteneva che i figli dovessero imparare a essere indipendenti in tenera età, ma quella notte non se la sentì di fare obiezione. Anche perché era spaventato come i suoi figli.

Il giorno dopo, il sole sorse sulla fattoria come sempre e le attività quotidiane ripresero. Tiziana si scoprì meno permissiva nel lasciare i figli da soli da giocare e iniziò a pretendere che Nicola accompagnasse sempre il fratellino. Nel frattempo, in paese si accorsero che l'odore era svanito e, anche in questo caso, fiorirono le teorie più strampalate. Il capitano dei Carabinieri disse che probabilmente qualcuno aveva fatto sparire la carcassa responsabile della puzza. Sergio dopo il lavoro si recava spesso al bar del paese e osservava in silenzio questi scambi di opinioni. Quando qualcuno tentava di coinvolgerlo nella discussione e gli chiedeva la sua opinione su quei bizzarri eventi, lui si limitava a dire che non ne sapeva nulla e preferiva così.

Né Sergio, né i suoi figli, raccontarono mai cosa fosse accaduto loro durante quella nottata, nel bel mezzo del bosco spaventoso.

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