venerdì 2 agosto 2013

La cittadella di roccia




Quando estrassero i loro compagni dal veicolo, la prima cosa che notarono fu il loro sguardo: il volto contratto in una smorfia di terrore, gli occhi spalancati. I loro corpi erano rigidi e, a un primo esame, il medico della base dedusse che si trovassero in una sorta di coma, indotto da uno shock fortissimo.

L'umore nella base, che nei giorni precedenti era stato piuttosto alto, precipitò miseramente in un cupo silenzio. Gli astronauti lavoravano ai loro progetti meccanicamente, senza aprire mai bocca. Una situazione davvero surreale, pensò Ray Malakian, perché fino al giorno prima avevano ciarlato come un gruppo di studenti alle prese con la loro prima gita scolastica.

Erano atterrati su Marte da sei mesi, all'incirca. Lui e altri sette scienziati, primo nucleo di una colonia permanente sul pianeta. “Il viaggio del non ritorno”, l'avevano chiamato i giornali, scrutinando le vite degli astronauti sempre alla ricerca del dramma. “La cosa che mi mancherà di più? Gli hotdog dello Yankee Stadium”; “Mio padre e mia madre”; “Le vacanze al mare ad Arcachon”; “La pizza!”. La verità era molto più prosaica: sin da quando avevano aderito alla missione su Marte, gli astronauti erano stati informati che si sarebbe trattato di un viaggio di sola andata, e selezionati e addestrati proprio per questo. Sia Ray che i suoi compagni, provenienti da diversi Paesi del mondo, erano stati scelti per il loro carattere indipendente e la mancanza di forti legami sulla Terra.

Quattro uomini e quattro donne, un viaggio di nove mesi, l'atterraggio, i primi, scomodi alloggi ricavati dal modulo con cui erano discesi sulla superficie. E poi la costruzione della base sotterranea, in un tunnel naturale scavato dalla lava, protezione perfetta contro i raggi ultravioletti, filtrati malamente da un'atmosfera molto più sottile di quella terrestre. Era stato un lavoro duro ma appagante e, finalmente, il gruppetto si era adattato alle rigide condizioni di vita e ci stava anche prendendo gusto. Tra soli sei mesi sarebbero arrivati altri sedici astronauti, e poi altri ventiquattro l'anno seguente. Le prospettive erano rosee e il comando centrale, sulla Terra, dormiva sonni tranquilli sapendo che la prima colonizzazione planetaria era partita con il piede giusto.

Poi, l'imprevisto. Il giorno prima, due astronauti, un russo, Mikhail Chernov, e una francese, Anne Mazet, si erano allontanati dalla colonia perché uno dei rover non dava più segnali. Il robottino stava esplorando un vicino cayon, luogo della sua ultima trasmissione, ed era lì che Chernov e Mazet erano diretti. Si erano assentati per mezza giornata senza mai comunicare alla base. L'atmosfera era tesa: tutti erano molto preoccupati, ma nessuno aveva potuto farci niente, perché nel frattempo si era alzata una tempesta di sabbia e mandare dei soccorsi in quelle condizioni avrebbe significato perdere altri uomini. Così, tutti rimasero fermi ad aspettare. Infine, verso il tramonto, Chernov e Mazet erano tornati, ma in quelle condizioni. Chernov era a malapena riuscito ad attivare l'autopilota, prima di perdere i sensi.

Del rover mal funzionante non v'era traccia, dunque Ray e gli altri ne dedussero che la missione fosse andata a vuoto. Ma il particolare passò in secondo piano, davanti a quello stato catatonico così peculiare, quello sguardo di orrore da far rabbrividire anche i più induriti tra di loro. Che cosa era successo a Mikhail e Anne durante quelle ore di assenza? Che cosa avevano visto da shockarli a quel punto? Ray, come anche altri suo compagni, non era sicuro di volere le risposte. D'altro canto, Marte era un pianeta ostile, certo, ma disabitato. Di questo ne erano sicuri ormai da più di un secolo. Perciò, al di là di una falla nella tuta o delle radiazioni solari, che cos'altro poteva temere un uomo su quel rosso mondo desolato?

Così, per fugare ogni dubbio, venne organizzata una seconda spedizione. Una geologa americana, Julie Dreyfuss, si fece volontaria insieme a Enzo Rosmini, un biologo italiano, e lo stesso Ray. La partenza era fissata per le 11:30 della mattina, e Ray passò le ore precedenti a fissare il panorama di Marte da uno dei finestroni sulla parete est del lungo tunnel sotterraneo. Si era alzato presto, in tempo per l'alba, e, mentre il sole si levava sopra quel mondo rosso e immobile, Ray non poté trattenere un pensiero nefasto: e se Marte avesse nascosto segreti incomprensibili alla mente umana? Osservava i tratti di quel pianeta così frastagliato, la pianura davanti alla base spaccata come terreno alcalino secco e cosparsa di rocce di ogni dimensione, le lontane creste montuose generate dall'impatto di enormi crateri, e rifletteva su quanto Marte fosse così simile alla Terra, eppure così diverso. Nessuno aveva calpestato quelle terre desolate da milioni di anni – o almeno per quanto ne sapevano loro. Chissà quali sorprese avrebbe potuto riservare loro la prima esplorazione estensiva del pianeta, prevista il mese seguente...

Il sibilo della porta idraulica alle sue spalle lo risvegliò da quella matassa di pensieri e lo riportò al presente. Si voltò per vedere chi fosse entrato nella stanza e sentì il calore defluire istantaneamente dal suo corpo. Davanti a lui c'era Mikhail Chernov, immobile, gli occhi sbarrati e la fronte imperlata di sudore. Ray lottò contro l'istinto di fuggire dalla stanza e, dopo aver afferrato il corrimano sotto alla finestra per tenersi in piedi, riprese coraggio e chiese: “Mikhail, che c'è, ti senti bene?”. Il russo, che fino a quel momento aveva guardato nel vuoto oltre Ray, improvvisamente girò gli occhi nella sua direzione e, dopo un rantolo lugubre, pronunciò queste parole: “Qualcuno ci ha preceduti”. Poi stramazzò a terra, privo di sensi. Ray chiamò subito aiuto e tentò di rianimare quell'uomo corpulento, ma senza successo. Mikhail fu condotto in infermeria, a riprendere il suo posto accanto ad Anne.

Ancora scosso, Ray disse che se la sentiva ugualmente di seguirli in missione – anche se la verità era che la vista di Mikhail lo aveva terrorizzato. Ma ormai la curiosità di scoprire cosa si nascondesse al di là della bassa fila di colline, oltre l'orizzonte e sul fondo di quel canyon misterioso, era più forte della paura. Perciò, Ray, Enzo e Julie si avventurarono fuori dall'habitat caldo e rassicurante della loro casa da talpe, a bordo di una piccola jeep con cui solcarono il terreno accidentato della pianura, diretti verso l'ignoto. Quanti uomini prima di loro avevano compiuto passi simili, mossi dalla febbrile smania per la scoperta? Loro stessi si erano aggiunti alla lista più di un anno prima, quando la loro astronave era salpata dall'orbita terrestre in direzione del Pianeta Rosso, la loro nuova casa.

Il viaggio fu molto silenzioso, interrotto soltanto dalle comunicazioni di servizio della base e dai rilevamenti di Julie, che indicava loro i percorsi più sicuri per evitare di rimanere incastrati nel regolite. A circa duecento metri dall'habitat, la pianura iniziava a impennarsi dolcemente, laddove si ergeva la cresta che delimitava il gigantesco cratere nel quale erano atterrati mesi prima. Woola, il satellite che avevano sganciato in orbita prima di atterrare, aveva rilevato la presenza di uno stretto passo sulla cima della cresta davanti a loro, attraverso il quale avrebbero facilmente oltrepassato l'ostacolo naturale per discendere poi verso la loro destinazione. Mentre Rosmini guidava concentratissimo, Ray teneva d'occhio il suo Pad per monitorare la situazione meteorologica: se si fossero trovati nel mezzo di una tempesta di sabbia, avrebbero dovuto trovare riparo al più presto, ma al momento il tempo pareva reggere.

Finalmente avvistarono il canyon, che spaccava in due la pianura da sinistra a destra, perdendosi oltre l'orizzonte. Enzo si lasciò sfuggire un grido di gioia che Ray trovò superfluo: dopo tutto, la loro missione era appena iniziata e non era proprio il momento di festeggiare. Enzo fermò la jeep a poca distanza dall'abisso oscuro e i tre astronauti scesero per dare un'occhiata. Nonostante le loro pesanti tute pressurizzate, camminavano agilmente, saltellando qua e là nella bassa gravità marziana. Giunti sopra il dirupo, si chinarono per guardare giù, ma scoprirono con grande disappunto che il sole non riusciva a farsi strada nello stretto e profondo antro sotto di loro. Eppure, qualcosa attirò l'attenzione di Julie, che fece un balzo in piedi puntando il dito: “Laggiù c'è qualcosa!”, gridò la donna. “Qualcosa... di che tipo?”, chiese dubbioso Enzo. “Non lo so... mi sembra di aver visto un riflesso di qualche genere”. Enzo era scettico, mentre Ray, sempre più incuriosito, disse: “Un riflesso... forse un luccichio metallico? Potrebbe essere il nostro rover”.  “Potrebbe – intervenne Enzo – ma che probabilità c'è che sia riuscito a scendere fin lì sotto?”. “Quasi nessuna – rispose Ray – È più probabile che sia caduto”. L'espressione di Rosmini mutò, come se non avesse considerato quell'ipotesi, ma ora ne fosse a suo modo convinto. Ray si voltò verso Julie e domandò: “Allora, vogliamo dare un'occhiata laggiù?”. La Dreyfuss lo fissò con espressione divertita: “Ah, non lo devi certo chiedere a me! Sono arrivata fin qui e non intendo tornare indietro senza aver trovato una risposta”. Ray passò dunque la palla a Enzo, che lo guardò e annuì. “Tanto vale. Ma prima dobbiamo trovare una strada decente”.

La trovarono a circa due chilometri dall'inizio del canyon: una frana aveva creato una pista abbastanza ripida, ma percorribile. Rosmini affrontò il percorso con una concentrazione ancora più alta, frenando ripetutamente per non prendere una velocità eccessiva, che li avrebbe sicuramente fatti schiantare sul fondo del canyon, uccidendoli all'istante. Dopo circa un'ora, raggiunsero la base della gola e si addentrarono nell'oscurità, diretti verso il punto in cui Julie aveva notato lo scintillio. Ci misero una mezzora, ma alla fine giunsero quasi fin sotto all'imponente parete che chiudeva il canyon. Quindi scesero dalla jeep e si guardarono intorno, alla ricerca del rover, o di ciò che ne rimaneva.

Non ci misero molto a trovarlo, ma per quanto il ritrovamento del rover non avesse nulla di strano, in sé, fu il “dove” a riempirli di angoscia. Il rover era a pezzi, probabilmente a causa della caduta dalla cima dell'abisso. Ma, anziché trovarsi in mezzo al fondo della gola, o vicino a una delle pareti, il robottino era nascosto in un anfratto. Era difficile pensare che, cadendo, fosse rimbalzato finendo dritto dritto in quella piccola cavità nella roccia. Poi, osservando meglio i resti del rover, si resero conto che qualcos'altro non andava e ciò non fece altro che spaventarli ancora di più: innanzitutto, i resti erano tutti ammucchiati nello stesso punto. Era logico pensare che, cadendo da una tale altezza, il rover avrebbe dovuto frantumarsi in mille pezzi minuscoli e sparpagliarsi ovunque. In secondo luogo, i pannelli d'acciaio del robottino riportavano dei segni simili a dei colpi, dati con una roccia di piccole dimensioni. “Come se fosse stato aggredito da un uomo delle caverne”, disse Enzo, contribuendo ulteriormente al clima di angoscia che ormai li soffocava. Alla battuta, tutti quanti presero a guardarsi intorno, aspettandosi ormai di veder spuntare una silhouette minacciosa dalla penombra della gola, armata di una felce e pronta ad aggredire quegli strani intrusi. Ma il canyon era silente, e l'unico suono era il lieve sibilo del vento che ne attraversava gli anfratti. Enzo, Ray e Julie si guardarono l'un l'altro, rabbrividendo. Ray ripensò alle parole pronunciate da Mikhail in stato di trance: “Qualcuno ci ha preceduti”. La frase lo aveva inquietato, e da ore stava tentando di liquidarla come il frutto di una mente sconvolta. Ma non c'era mai davvero riuscito, e a quel punto l'ipotesi che qualcun altro – o qualcos'altro – calcasse la desolazione della gola non gli sembrava più tanto folle. La stessa cosa dovevano pensare gli altri due, ma nessuno osava esprimerla ad alta voce. Finché Enzo non disse: “Suggerisco di tornare alla base. Abbiamo il rover e non ha senso fermarsi ulteriormente”. Gli altri annuirono e tutti e tre si incamminarono verso la jeep, sentendosi un po' più sollevati all'idea di lasciare quel posto lugubre.

Poi, all'improvviso, il vento crebbe d'intensità e li investì bruscamente. Le folate erano generalmente più deboli su Marte, a causa dell'atmosfera rarefatta, ma c'erano dei casi in cui il vento poteva alzarsi fino a toccare livelli terrestri. Di solito, ciò avveniva prima di una tempesta di sabbia. E quando Enzo, Julie e Ray alzarono gli occhi al cielo bruno e minaccioso, era ormai troppo tardi per tentare la fuga: la tempesta di sabbia era sopra di loro e in un attimo si abbatté con furia sulla gola. Il vento avvolse il canyon in un fosco abbraccio, azzerando in men che non si dica la visibilità e strappando ai tre astronauti ogni speranza di ritrovare il loro mezzo di trasporto. “Presto! Troviamo un riparo!”, gridò Ray voltandosi verso i suoi due compagni. I tre tornarono sui loro passi il più velocemente possibile, cercando una grotta, una cavità di qualunque tipo. Finalmente trovarono un'apertura nella parete destra della gola, abbastanza grande da consentire l'ingresso di un essere umano. Ray e Julie vi si infilarono poco prima che una raffica di vento spazzasse il fondo della gola con una potenza inaudita. Purtroppo per Enzo, la corrente d'aria lo investì prima che riuscisse a mettere piede nella grotta, proiettandolo con forza contro la parete del canyon. L'impatto fu praticamente muto, nel frastuono causato dalla tempesta, ma Julie e Ray videro molto bene la scena e capirono subito che per il loro compagno non ci sarebbe stato più nulla da fare. Ray si lanciò rapidamente verso il corpo esanime del collega e lo trascinò con sé al riparo, dentro la grotta. Quando lo ribaltò, Julie cacciò un urlo. Il vetro del casco era stato frantumato dalla roccia, lasciando Enzo esposto all'atmosfera venefica e al gelo di Marte, che l'avevano ucciso quasi all'istante. “E ora che facciamo?”, chiese Julie. “Aspettiamo”, rispose laconico Ray.




Il tempo passava lentamente in quella cavità angusta. Dopo un'ora, Ray diede uno sguardo alla riserva d'aria, indicata nel piccolo monitor posto sul polso della tuta. Vide che avevano ancora a disposizione due ore di ossigeno. Lo comunicò a Julie, la quale si limitò a stringersi nelle spalle, come a dire “Tanto non c'è niente che possiamo fare”. La speranza di entrambi, naturalmente, era che la tempesta di sabbia si diradasse entro breve, consentendo loro di raggiungere la jeep, con la sua riserva d'aria bastante per giorni. Ma il vento, per ora, non accennava a calare, e in queste condizioni sarebbe stato impossibile raggiungere la vettura a piedi. Passata un'altra mezzora, Ray controllò nuovamente la scorta di ossigeno e bestemmiò. “Non possiamo stare qui in eterno”, disse mentre scattava in piedi. “Dove vai?”, chiese Julie. “A esplorare questa grotta. Voglio vedere se c'è qualche passaggio, un altro modo per raggiungere la jeep. L'aiuto di un geologo potrebbe farmi comodo”. Julie lo squadrò preoccupata: “Sei sicuro di volerlo fare? Se anche trovassi un sistema di grotte, potresti finire per perderti e morirci dentro”. “Lo so. Ma se il vento non si calmerà entro breve, moriremo comunque asfissiati”. Julie fissò il compagno per qualche secondo, soppesando le alternative. “Vengo con te”, disse infine.

Le due figure impacciate, nelle loro ingombranti tute bianche, si addentrarono così nel cuore della roccia, seguendo un sentiero relativamente pianeggiante che li condusse in una grotta dal soffitto basso. Ray frugò nella borsa che teneva legata in cintura ed estrasse una piccola torcia elettrica, con la quale illuminò il cunicolo in cui si trovavano. Quando puntò il fascio di luce verso il soffitto, notò che era cosparso di stalattiti, risalenti a quando ancora su Marte l'acqua circolava nello stato liquido. “Questa roba deve essere vecchia di miliardi di anni”, disse Ray. “Lo è – rispose Julie – Niente e nessuno è mai passato di qui prima d'ora”. I due proseguirono in silenzio, il respiro sempre più affannoso, i vetri dei loro caschi appannati. Il cunicolo si stava facendo via via più stretto e diventava sempre più faticoso avanzare. Poi, fortunatamente per loro, il passaggio riprese ad allargarsi, fino a che, a un certo punto, non sfociò in una grotta molto più ampia. Ray sollevò la torcia puntando il fascio di luce verso il soffitto della cavità, che si rivelò molto più grande di quello che pensava.

Si trovavano all'interno di un atrio naturale alto una quarantina di metri e largo almeno cinquanta. Le pareti erano adornate da un'infinità di stalattiti antichissime e il tutto era avvolto in un silenzio irreale. Il minuscolo cono di luce della torcia era in grado di illuminare solo piccole porzioni della caverna e fu questo il motivo per cui né Ray né Julie notarono subito le strutture scavate nella roccia. Poi, Ray puntò la torcia su una di queste e si irrigidì. Nel silenzio, poteva sentire distintamente il battito del suo cuore al galoppo. Dietro di lui, Julie non dava segni di vita, ma finalmente ruppe la quiete sussurrando nell'interfono: “Dio mio... che cos'è?”. “Stavo per chiederlo a te – rispose Ray, dopo essersi ridestato – Non mi pare proprio che sia qualcosa di naturale”. “Non direi”, concluse Julie, incapace di articolare un discorso più complesso. Con il fascio di luce puntato, i due si avvicinarono titubanti per vedere meglio.

La “struttura” aveva tutta l'aria di essere – o di essere stata – un'abitazione. Una scaletta di roccia si issava lungo un rilievo della parete, per raggiungere quella che era senza dubbio una porta. Sopra di essa, due finestre erano state scavate nella roccia. La porta era circondata da due colonne che – anche se pareva quantomeno impossibile – erano di stampo ellenico. Ray distolse la torcia dalla parete per illuminare il viso di Julie. Gli sguardi che si scambiarono valevano di più di mille parole: entrambi erano scioccati per quello che stavano vedendo e non riuscivano a trovare una spiegazione razionale. Ray tornò a illuminare la parete, costeggiandola lentamente per controllare se, oltre alla misteriosa casa di roccia, altri tratti “artificiali” balzassero agli occhi. Non ci mise molto a scoprirli.

In alto, Ray vide diverse altre “case” scavate nella parete della grotta, mentre ad altezza d'uomo notò una serie di piccole figure di aspetto chiaramente umano scolpite nella roccia. Sempre più sbalordito, Ray fece cenno a Julie di raggiungerlo e le indicò le figure. “Si direbbe un bassorilievo – disse l'uomo – Ma come diavolo può esserci un bassorilievo in una caverna su Marte?”. Gli astronauti proseguirono a ispezionare le incisioni, non dissimili dai rilievi sul frontone dei templi greci. Julie chiese a Ray la torcia e osservò uno dei bassorilievi più da vicino. “Mi ricorda qualcosa”, si limitò a rispondere quando Ray le chiese se avesse idea di cosa potesse trattarsi. “Ma certo – disse infine – È qualcosa che ho studiato a scuola. Il viaggio degli Argonauti”. Julie esaminò con attenzione tutta la linea dei bassorilievi che correva lungo una buona metà della caverna e, infine, disse: “Ne sono certa, è la storia di Giasone e gli Argonauti, e del loro viaggio per ritrovare il Vello d'Oro. E lo so cosa stai per chiedermi, come diavolo fa ad essere qui. Ma ti assicuro che ne so tanto quanto te”. Poi, mentre parlava, accadde qualcosa di ancora più surreale: Julie avvertì un lieve picchiettio sul vetro del casco e notò con stupore che era stato prodotto dall'impatto di una goccia d'acqua su di esso. Ray fece in tempo a udire solo poche parole - “Mio Dio, è un habitat! Questo posto è un...” - prima di udire un rumore di vetri infranti, seguito da un tonfo spaventoso. Julie era crollata a terra, lasciandosi sfuggire di mano la torcia, che ora rotolava poco distante.

Preso dal panico, Ray si mise a correre verso di lei gridando il suo nome, nella speranza di una risposta. Ma, naturalmente, l'altro capo dell'interfono era silenzioso. Pochi attimi dopo, Ray scoprì con orrore perché: Julie era morta. Il casco era stato frantumato, e dentro di esso, in mezzo ai pezzi di vetro, giaceva l'arma del “delitto”: una roccia di piccole dimensioni, dalla punta lavorata e resa aguzza come quella delle felci usate dalle popolazioni primitive della Terra. La cosa più strana era che il suo viso non mostrava segni di congelamento, come se la temperatura dentro la grotta fosse stata infinitamente più alta di quella esterna, alta quasi a livelli terrestri.

Ma questa era attualmente l'ultima delle preoccupazioni di Ray, che aveva ormai capito di non essere solo dentro quella cittadella di roccia. Lasciato il corpo di Julie – ormai non c'era più nulla da fare e comunque non avrebbe potuto portarlo con sé – si voltò rapidamente e afferrò la torcia elettrica poco distante. Poi scattò in piedi e, senza altro indugio, si precipitò verso l'uscita della grotta. Fu allora che il suo misterioso assalitore lo intercettò, saltandogli addosso e spingendolo a terra. Ray e l'essere – umanoide, per quello che riusciva a scorgere nella semioscurità – si accapigliarono per qualche secondo, dimenandosi sul duro e freddo pavimento della grotta, finché l'essere non ebbe la meglio, serrando entrambi i polsi di Ray in una morsa d'acciaio e bloccandolo così sul pavimento. Erano molto più vicini all'ingresso della caverna, ora, e una lieve luminescenza proveniente dall'esterno permise a Ray di scorgere in maniera più definita i tratti della creatura che lo teneva in scacco. Si trattava, senza più alcun dubbio, di un uomo: il volto era adornato da una folta barba di colore nero, riccia come la sua altrettanto folta capigliatura. Il naso era grosso e aquilino, gli occhi sembravano scuri ed erano sovrastati da un monociglio. Nel buio, Ray non riusciva a cogliere bene il colore della sua carnagione, ma sembra scura.

I tratti principali del viso erano chiaramente mediterranei e Ray, messi insieme i pezzi del puzzle, si trovò di fronte uno scenario assurdo ma ugualmente incontestabile: l'aspetto delle abitazioni scavate nella roccia, le colonne, i bassorilievi ritraenti il mito degli Argonauti... e ora l'aspetto mediterraneo del suo assalitore. Se non fosse stato un pensiero totalmente folle, Ray ne avrebbe dedotto che gli antichi greci, in qualche maniera che non riusciva a spiegarsi, fossero riusciti a salpare per lo spazio e a raggiungere Marte duemila anni prima che il genere umano inventasse la tecnologia necessaria per compiere un tale balzo. Forse, chissà, il suo assalitore era l'ultimo discendente dei membri di una spedizione che, in seguito, le leggende avrebbero tramutato in quella degli Argonauti. Si aprivano davanti a lui, e a tutti gli uomini di scienza, scenari da brivido, che avrebbero sicuramente scosso dalle fondamenta tutte le loro certezze circa il progresso umano e magari riaperto il dibattito circa l'esistenza di antiche civiltà, quali Atlantide e Lemuria, in possesso di un grado di conoscenza tecnologica ben superiore a quelle successive.

Questi pensieri si accavallarono nella mente di Ray in pochi millesimi di secondo, mentre tentava contemporaneamente di affrancarsi dalla stretta del suo aguzzino. Ray lottò con tutte le sue forze, ma la tuta gli rallentava i movimenti, mentre l'altro, che indossava solamente una calzamaglia argentata dall'aspetto leggero, era molto più agile di lui. E più intelligente di quanto avesse pensato, perché in breve scorse la giuntura pressurizzata che collegava il collo della tuta spaziale con il casco e ci infilò una delle sue mani possenti nel tentativo di strapparla. Nel farlo, lasciò libero il braccio sinistro di Ray, che tentò quindi, disperatamente, di colpire l'assalitore in volto. Questi, per tutta risposta, gli sferrò una ginocchiata nello stomaco, togliendogli il fiato. Come se non bastasse, Ray faticava a respirare e presto capì perché: la lotta sul pavimento della caverna doveva aver strappato uno dei tubi delle bombole poste sulla sua schiena. Ray non riusciva a raggiungere il rilevatore sul suo polso destro, ma era sicuro che, se lo avesse fatto, avrebbe visto il livello di ossigeno calare esponenzialmente. Tutto sembrava ormai perduto: il torpore avvolse il suo corpo, e Ray sentì le palpebre farsi pesanti, sempre più pesanti...

Finché non udì un crack sordo e avvertì un peso sullo sterno. Il frastuono lo aveva ridestato, come un soccorritore che lo avesse afferrato con forza per un braccio, trascinandolo con sé attraverso il turbinante magma dell'incoscienza fino a ritrovare la riva. Ray aprì gli occhi e vide una scena a cui, sulle prime, non credette: il corpo del suo assalitore era riverso senza vita sulla sua cassa toracica, mentre sopra di lui, Julie lo fissava con espressione risoluta. In mano, stringeva ancora il grosso masso con cui aveva fracassato la testa del loro nemico.

Ray stentava ad accettare la scena, eppure sembrava così reale: Julie era viva, davanti a lui, con il vetro del casco rotto – e stava respirando l'aria liberamente! “Che è successo?”, chiese Ray, il respiro ormai affannoso. “Te l'ho detto – rispose Julie, posando il masso a terra – questo è un habitat. Non ho idea di che tipo di tecnologia lo faccia funzionare, ma sul fatto che funzioni non ho alcun dubbio”.

Julie aiutò Ray a issarsi, ma dovette accontentarsi di metterlo a sedere, perché la perdita di ossigeno lo aveva debilitato. La donna procedette dunque a svitargli il casco, e Ray inspirò profondamente l'aria stantia, ma respirabile, della grotta, e sorrise compiaciuto. “È fantastico!”, gridò, e la sua voce echeggiò nei meandri della montagna. In pochi minuti, smontarono le bombole dalla tuta di Julie e le collegarono a quella di Ray. Dopo aver indossato nuovamente il casco, ancora intatto, Ray si voltò verso Julie e, accarezzandole piano il volto, disse: “Mi raccomando, fa' attenzione. È probabile che quello fosse l'unico superstite della colonia, ma non si sa mai. Io cercherò di metterci il meno possibile e tornerò con i rinforzi”. Detto questo, Ray lasciò la grotta e si incamminò attraverso lo stretto cunicolo verso l'uscita. Una volta fuori, constatò con piacere che la tempesta di sabbia si era placata. Quindi, raggiunse senza fatica la jeep e partì alla massima velocità verso il campo base.

Era ormai a metà strada quando cominciò a sentire i muscoli irrigidirsi. Fece appena in tempo ad attivare il pilota automatico, prima di paralizzarsi completamente. Poi, negli ultimi istanti di lucidità, quando la jeep aveva già superato l'altura che delimitava il famigliare cratere e la base era ormai in vista all'orizzonte, Ray capì. E l'ultimo suo pensiero volò oltre la cresta montuosa, al di là della pianura, planò con grazia nelle profondità del canyon e facendosi strada, infine, nei meandri della terra, laddove giaceva in fin di vita Julie Dreyfuss. Con le forze restanti, come se in quell'istante finale le loro menti fossero collegate tra loro e lei potesse sentirlo a distanza, sussurrò: “Dormi Julie, non combatterlo. Lasciati andare”.

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