giovedì 7 marzo 2013

Kármán - Seconda parte




Greg non credeva ai suoi occhi: un mare, forse un oceano di mercurio che lambiva una spiaggia di quarzo. Le minuscole pietre scrocchiavano contro la pianta degli stivali producendo un rumore simile al ghiaino. Greg non riuscì a contenere una fragorosa risata e cadde in ginocchio tenendosi la pancia e rise fino a che le lacrime non gli inumidirono le guance. Si asciugò gli occhi con il guanto e fissò per qualche minuto la distesa di metallo liquido scosso dalle onde, finché un rumore di passi poco distante non attirò la sua attenzione. Voltatosi alla sua sinistra, notò una figura solitaria che camminava sulla spiaggia nella sua direzione. D'istinto, si levò in piedi e gridò “Chi è là?”. La figura, dall'aspetto e dalle proporzioni umanoidi, alzò un braccio in segno di saluto. Greg la guardava avvicinarsi e non sapeva se scappare o attendere. Decise per la seconda: se doveva morire, almeno voleva saperne di più di quello strano mondo nel quale era stato catapultato.

L'aria pesante e satura di gas generava una foschia che impediva a Greg di mettere a fuoco la figura, di cui riuscì a distinguere meglio i tratti solo quando si fu avvicinata a poche decine di metri. Alto circa un metro e ottanta, l'essere – definizione migliore non riuscì a trovare – indossava una tunica viola scuro che lo rivestiva fino ai piedi, lasciandone scoperti solo gli avambracci e gli strani calzari. Il suo volto era l'elemento più disturbante: la pelle era color smeraldo, gli occhi parevano dei rubini incastonati nelle orbite e la sua bocca pendeva all'estremità di una corta proboscide. Sul capo, delle escrescenze di carne spuntavano laddove un uomo avrebbe portato i capelli. “Salute”, disse la creatura in perfetto inglese. Greg fu sconvolto più da questo che dal suo aspetto. Sollevò una mano tremante e ricambiò timidamente. “Dove... dove mi trovo? Chi sei tu?”. L'essere lo squadrò – o meglio, Greg lo dedusse, visto che non riusciva a capire in che direzione stessero guardando quei rubini senza pupille – e infine rispose. “Per quanto riguarda la tua prima domanda, il mio nome è impronunciabile nelle tre dimensioni del tuo spazio. Puoi chiamarmi Jack, se preferisci”. “Jack?”. “Jack. Per rispondere al tuo secondo quesito, vorrei che mi seguissi”. Jack diede le spalle a Greg e si incamminò su per la salita che conduceva alle rocce sovrastanti la spiaggia. Greg seguiva in religioso silenzio, ma la sua mente stava urlando. Il suo cervello, sconvolto dalla bizzarria degli eventi, era come un equilibrista sul sottile filo che separa la sanità dalla pazzia.




Dopo aver camminato per alcuni minuti, sbucarono in cima a un basso promontorio che dominava l'insenatura sottostante. Lontano, Greg poteva vedere altre baie separate tra loro dalle scogliere blu. La sua guida stringeva in mano un'ampolla dorata e quando distese il braccio e aprì il palmo, l'ampolla si sollevò, galleggiando nell'aria, e prese a risplendere di una luce fortissima, la stessa che Greg aveva “percepito” poco prima. Le labbra appese alla proboscide di Jack iniziarono a muoversi ma, come in un film doppiato fuori sincrono, Greg sentì solo poche parole, come se le restanti si fossero propagate in dimensioni a lui proibite. “Samu no Kármán”, disse l'alieno. La formula scatenò un effetto spaventoso e meraviglioso allo stesso tempo: Greg vide le nubi rosse e arancioni dileguarsi in un batter di ciglia, lasciando posto al notturno cielo limpido. L'uomo vide stavolta senza impedimenti gli straordinari caleidoscopi che adornavano il cielo di quella stella impazzita, ma a colpirlo fu piuttosto la sfera blu alta sopra l'orizzonte. Era la Terra. “Questo è Kármán – disse Jack – La linea di demarcazione”. “Che vuoi dire?”. “Il tuo mondo è regolato da leggi spaziotemporali diverse dall'Esterno. Voi credete che la Terra sia un sasso fluttuante in un vuoto di morte, ma non è così. L'Esterno è vivo, così come la vostra Terra. La Terra è un essere vivente”. Greg sentì le ginocchia cedergli e crollò sulla dura roccia. “Ma dove diavolo sono finito?”, gemette l'astronauta con un filo di voce. L'alieno proseguì a parlare senza voltarsi: “Sei qui con me. Sei dentro Kármán, la linea. Il mondo interstiziale che nasce dal riflesso”. “Il riflesso? Quale riflesso?”; Greg era ormai isterico. “Il riflesso del tuo mondo nello spazio esterno”, rispose Jack voltandosi finalmente a incrociare il suo sguardo, con l'intonazione di chi ha appena dovuto dire un'ovvietà. Poi riprese a fissare con sguardo distante la volta caleidoscopica. “Che pace – disse infine – Goditela finché puoi”. Detto questo, diede le spalle a Greg e si avviò verso il declivio roccioso con passo flemmatico. “Aspetta – urlò Greg – Che intendi con 'finché puoi'? Che cazzo mi sta succedendo?”. Ma Jack non rispose e proseguì nel suo cammino fino a scomparire dalla vista.

In quel momento, i caleidoscopi celesti cominciarono a roteare in un moto grandioso e una forza invisibile prese a strattonarlo con violenza. Pareva che un'aquila cosmica gli avesse conficcato i suoi poderosi artigli nelle scapole e lo stesse trascinando verso il cielo. Sentiva il ventre lacerato da forze ondivaghe, le ossa di braccia e gambe che si separavano e le spalle che uscivano dalle loro sedi. Un dolore lancinante lo attraversò come una scossa elettrica e il calore di quel mondo alieno sparì con la stessa rapidità con la quale lo aveva accolto.

La gravità era ormai un ricordo. E Greg Walton allora capì. Capì di aver attraversato una soglia, di esserci passato in mezzo e di aver assaporato per brevissimo tempo un dove e un quando che nessun uomo dovrebbe mai conoscere. “Quel pezzo di merda di Gagarin – sussurrò, sfinito, la voce che si trasformava in brina e appannava la visiera del ritrovato casco – Quei rossi fottuti. Non hanno mandato nessuno nello spazio, hanno fatto finta”. Mentre fluttuava intorpidito non poté impedirsi di sorridere, pensando a quanto aveva visto e al fatto che, in quel fugace istante che precedeva la sua morte, lui era l'uomo più sapiente del pianeta Terra. [Fine]

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