venerdì 8 marzo 2013

Madre dal cuore atomico

Nel giorno della Festa della Donna ho pensato di realizzare qualcosa di speciale. L'incipit di questo racconto mi ronzava in testa da tempo ed è legato a un ricordo molto personale. Lo dedico a tutte le donne e in particolar modo a mia madre, che ancora oggi, dopo una vita di lavoro tra casa e ufficio, trova ancora la forza di lavarmi e stirarmi praticamente tutto anche se ho superato la soglia dei trenta... Ah, questo va gustato con l'appropriata colonna sonora.




Madre dal cuore atomico


Se chiudeva gli occhi riusciva a vederla ancora: l'altalena arrugginita e, accanto, sua madre che lo accoglieva tra le braccia mentre il suo caldo sorriso risplendeva nella luce dorata dell'indolente pomeriggio estivo. Un frammento di ricordo più che un ricordo vero e proprio. Sembrava il flashback di un film ed era legato a un dettaglio fondamentale: Atom Heart Mother dei Pink Floyd.

C'è un punto di quella maestosa suite per gruppo e orchestra in cui la pomposità dei fiati si dilegua e lascia spazio a un delicato intreccio tra l'organo Hammond di Richard Wright e un violino. Quel punto lo scuoteva sempre nel profondo in un modo che non riusciva a spiegarsi, lasciandolo ogni volta in lacrime e con in testa quell'immagine. Stefano non capiva che cosa c'entrasse ma riteneva che riguardasse in qualche modo l'imprinting. La sua teoria era questa: suo padre, che gli aveva passato l'amore per i Pink Floyd, probabilmente ascoltava spesso quell'album nel mangiacassette della vecchia Fiat 127 verde pistacchio, in quei lontani giorni d'estate dei primi anni Ottanta, quando lui era molto piccolo. Quel brano doveva essere rimasto particolarmente impresso nella sua malleabile mente infantile, al punto da risuonargli continuamente in testa anche quando la madre lo portava al parco giochi.

E qui la trama si infittiva: quale parco giochi? Ce n'erano almeno tre da loro frequentati all'epoca. Lui aveva tentato di piazzare geograficamente quella scheggia di memoria, esaminandone ogni centimetro come fosse una vecchia e sbiadita foto passata sotto la lente d'ingrandimento del subconscio. File di alberi – o forse un'alta siepe – alla sua sinistra, l'altalena davanti a questi ultimi. Leggermente a destra sua madre e, dietro di lei, un filare di pini che delimitava un parchetto dall'erba secca e ingiallita. A cornice del tutto quel grasso e vecchio sole che denotava inconfondibilmente un pomeriggio d'estate. Se fosse stato in grado di accedere alla memoria con la facilità con cui si apre un file, era sicuro che avrebbe potuto anche sentire, in sottofondo, il rumore del pallone calciato e dei fischi dell'arbitro provenienti dal vicino campo da calcio, quello che stava di fronte alla sua vecchia casa rossa. Aveva ben pochi dubbi: il parco giochi in questione era quello dall'altra parte del grande incrocio che inquinava le notti estive col rombo dei motori e le zaffate di smog.

In un tardo pomeriggio di fine luglio, prese dunque la decisione di condurre un piccolo “esperimento sensoriale”. Dopo aver staccato dal lavoro, guidò fino al vecchio quartiere e ritrovò il complesso sportivo nel quale era situato l'antico parco giochi. Smontò dall'auto e iniziò a esplorare il posto, scoprendo che il parco era ancora lì dove lo aveva lasciato, più di vent'anni prima. Per un attimo fu colto da una sensazione di vertigine pensando al tempo trascorso e a quanto distante era ormai quell'epoca di innocenza e gioco. Il parco era deserto. L'altalena verde con le macchie di ruggine era ancora al suo posto e pareva una reliquia post-atomica. Gli altri dettagli non li ricordava, ma era sicuro che anche la vasca con la sabbia e la giostra rotante risalissero alla sua infanzia, mentre i cavalli a dondolo e lo scivolo erano certamente nuovi – o se non altro meno vecchi.

Dopo aver dato un'occhiata generale al luogo dei suoi ricordi si sistemò su una panchina e poggiò accanto a sé lo stereo portatile, lo accese e schiacciò “play”. Poi chiuse gli occhi, reclinò la testa all'indietro e lasciò che l'acido che aveva assunto poco prima facesse effetto. Le note di Atom Heart Mother si librarono nell'ottusa aria estiva, vibrando nell'umida atmosfera di quel sasso verde e blu e raggiungendo con un balzo cosmico lontani quasar dal sorriso rossastro, nubi di polveri galattiche e nebulose antiche come l'universo stesso, fino a spegnersi in buchi neri al di fuori di ogni tempo e luogo.




Quando Rick Wright mise a tacere i fiati con il suo arpeggio d'organo commovente, l'occhio della mente dell'uomo si spalancò e il frammento si incastrò finalmente nel puzzle da cui aveva origine. La memoria divenne un evento attuale, in fieri. Era come se lui fosse tornato all'improvviso bambino e si vide correre dal vecchio scivolo arrugginito verso le braccia della madre, che lo sollevò e se lo portò al petto per poi schioccargli un bacio sulla guancia. “Eccolo qui, il mio supereroe! Cosa vuoi fare adesso, vuoi andare sull'altalena?”. Indossava dei jeans scuri, le scarpe della Superga con gli strappi e la maglietta dell'Uomo Ragno che sua madre gli aveva comprato quando erano andati al mercato dello Stadio il mese prima. La mamma! Era morta da più di vent'anni ma lui la stava vedendo come fosse ancora viva e in salute. La sua mano di bambino si protese per accarezzare quel bel viso, così amorevole e rassicurante...

Stefano cacciò un urlo quando le dita sfiorarono quella pelle candida e liscia: un tremore lo scosse fin dentro le ossa e l'illusione sparì. L'occhio della mente si era chiuso di colpo, lasciandogli un cerchio alla testa e una sensazione di disorientamento. Ridestatosi da quella trance inaspettata, l'uomo fece per spegnere lo stereo e tornare alla macchina, quando con la coda dell'occhio notò del movimento e, voltatosi di scatto, vide un bambino che correva tra i fili d'erba verso l'altalena. Poco distante, c'era una donna che doveva essere sua madre. Che coincidenza! E che stranezza: era sicuro che fino a pochi secondi prima il parco fosse deserto. “Aspetta un minuto”, si disse... Quel bambino non assomigliava in maniera sospetta a lui stesso da piccolo? E non indossava forse gli stessi jeans, le scarpe con gli strappi e la maglietta dell'Uomo Ragno? E quella signora che lo stava accogliendo in un abbraccio non era forse identica alla donna che lui aveva visto in foto sin da ragazzino, unica testimonianza dell'esistenza di una madre scomparsa ben prima che la sua mente potesse formulare pensieri coerenti? La risposta a tutte queste domande era, spaventosamente, sì.

Era sveglio, di questo era certo. Si era risvegliato in un tempo passato, nell'istante esatto in cui quel ricordo si era impresso nella corteccia. O era forse tutta un'illusione procurata dall'acido? “Eccolo qui, il mio supereroe!”, stava dicendo sua madre e, mentre l'altoparlante del parco trasmetteva Atom Heart Mother, Stefano proruppe in un pianto incontenibile. Sua madre, che nel frattempo stava stringendo in braccio il suo giovane io, guardò con sospetto quel ragazzo che si era alzato dalla panchina e, in lacrime, si dirigeva verso di lei a braccia tese. La donna strinse ancora più forte a sé il bambino, come per proteggerlo, e iniziò a indietreggiare preoccupata, prima, e atterrita poi. “Chi è lei? Che cosa vuole?”. “Mamma – gridava Stefano ormai delirante – Mamma, non mi riconosci? Sono tuo figlio!”. “Aiuto!”, strillava impazzita la donna, ma nessuno accorreva e lei si mise a correre disperata verso l'uscita. Fu allora che Stefano ricordò le parole del padre, quell'unica volta in cui ebbe il coraggio di chiedere come fosse morta sua madre: “I carabinieri dissero che era sbucata dal cancello dell'impianto sportivo a tutta velocità, con te in braccio. Stando ai testimoni era in preda al panico e, quando ha raggiunto l'incrocio non si è nemmeno guardata intorno prima di attraversare e un'auto l'ha centrata in pieno. È riuscita a proteggerti ma per lei non c'è stato nulla da fare”.

Le gambe si misero a mulinare da sole e Stefano non si accorse nemmeno di essersi lanciato all'inseguimento della madre finché non raggiunse il cancello del parco giochi. “Ehi, fermati! Non attraversare la strada!”, gridava, ma la donna non sentiva ragioni. D'altro canto come darle torto, lei credeva di essere inseguita da un pazzo! Quando vide che stava oltrepassando l'ingresso del complesso sportivo, l'uomo si rese conto che gli era rimasta una sola possibilità. Accelerò il passo e con uno scatto finale raggiunse la madre poco prima che la Lancia Beta blu metallizzato la falciasse. Con un ultimo sforzo la spinse lontana dalla traiettoria mortale, ma non fu abbastanza rapido per salvare se stesso: fece appena in tempo a vedere il muso della Beta che lo puntava come un segugio infernale a una velocità inaudita e a sentire lo stridere degli pneumatici sull'asfalto. Poi fu il buio.




Allora riprese in sensi. Era ancora seduto sulla panchina nel parco giochi, lo stereo stava ormai diffondendo le note di Alan's Psychedelic Breakfast. Aveva dormito per quasi tutta la durata del disco. Che sollievo scoprire che era stato tutto un incubo! Spense lo stereo e si alzò dalla panchina per tornare verso la macchina. La luce nel frattempo era cambiata: si stava facendo sera, ma l'aria era ancora calda e umida. Le cicale tra gli alberi accompagnarono la sua breve passeggiata verso l'uscita del campo sportivo e quando vide l'incrocio, Stefano sussultò. Non avrebbe mai più guardato quella strada con gli stessi occhi, questo era certo. Giunto all'auto fece scattare le serrature con il telecomando e aprì il bagagliaio per riporvi lo stereo. Nello stesso istante, sentì squillare il cellulare nella tasca dei pantaloni e lo estrasse. Se qualcuno lo avesse visto in quel momento avrebbe notato il cambiamento repentino nella sua carnagione, che divenne mortalmente pallida in meno di un secondo.

Il display diceva semplicemente “Mamma”.

Stefano rispose con voce tremante. “S-sì?”. “Tesoro? Sono la mamma. Mi dovresti fare un favore: ha chiamato il custode del cimitero per dirmi che ieri sera dei vandali hanno fatto un macello, spargendo tutti i fiori. Potresti comprare un mazzo di crisantemi e passare a dare una sistemata alla tomba?”. La domanda di cui non voleva conoscere la risposta proruppe con violenza, senza che lui riuscisse a impedirlo: “Quale tomba?”. “Ma quella di tuo padre, naturalmente”.

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