giovedì 21 marzo 2013

La valigetta (Carletto contro i dischi volanti)




Ci aveva provato Carlo Semenzana a rigare dritto. Dopo tre anni di carcere per traffico di stupefacenti, era uscito in libertà vigilata e aveva trovato lavoro come camionista presso la Ital-Cementi di Bassano del Grappa. Ogni giorno si svegliava la mattina alle 5.30, prendeva quel dannato camion e lo guidava avanti e indietro per il Nord Italia. La sua vita ormai si divideva tra la corsia di destra e l'Autogrill e in quelle lunghe tratte, col culo che gli faceva male per quanto era scomodo il sedile di quel camion da pezzenti, ripensava ai gloriosi giorni degli anni Ottanta in cui aveva scoperto quanto fosse remunerativo piazzarsi fuori dai licei a vendere ganja e, occasionalmente, eroina.

Un regime di lavoro che aveva mantenuto il più a lungo possibile, finché la polizia non si era messa a fare controlli più scrupolosi e l'aveva costretto a ripiegare su una nuova strategia. Nel 2000 aveva preso in affitto un vecchio appartamento a Veronetta: era un posto umido e fatiscente e apparteneva a una anziana ricca che sperava di guadagnarci bene senza restaurare. A lui andava benone, comunque: era grande e c'era un salottino accanto alla porta di ingresso, dove poteva svolgere i propri affari senza che i clienti gli invadessero casa. Poi un giorno era arrivato uno dei suoi clienti abituali, il Rezza, che gli aveva presentato un amico. Avrebbe dovuto capire subito che si trattava di uno sbirro: era vestito da “alternativo” in maniera smaccata e goffa, esattamente come gli sbirri fanno. Indossava un berretto rasta, una maglietta con disegnata una foglia di Maria che imitava il logo Adidas, con sotto scritto “Cannabis”, un paio di jeans di tre misure più grandi e ai piedi indossava degli anfibi chiodati. Quale cazzo di fricchettone con la fissa di Bob Marley si mette ai piedi anfibi chiodati? Comunque, “Carletto”, come lo chiamavano tutti, si fidava dei suoi clienti più stretti. Quello che non poteva sospettare era che il Rezza fosse stato beccato a scaricare foto di minori dai siti porno e che i pulotti gli avessero proposto uno scambio: inchiodare lui in cambio della libertà.

Così Carlo era finito al fresco per tre lunghi anni. Un'esperienza merdosa se non fosse stato per il suo compagno di cella, Damian Ionescu detto “Onestu”, un romeno di quarantacinque anni e due metri d'altitudine (come diceva lui) con alle spalle più crimini che anni. “Senti Carletto – gli aveva detto una sera, dopo che si erano spente le luci – A me mi hanno incastrato 'sto giro. Stavo concludendo un affare ma i miei soci hanno scoperto che la pula ci veniva dietro e mi hanno mollato con la droga in mano. Ma io sono riuscito a nascondere una parte della roba. Voglio dirti dove si trova, così appena sarai fuori la rivenderai e faremo a metà”. Carlo aveva esitato, più che altro perché odiava la prigione e continuava a ripetersi che, una volta fuori, avrebbe rigato dritto e non ci sarebbe più tornato. Ma l'offerta era davvero allettante: a quanto diceva Onestu, la partita di droga che aveva salvato stava in una valigetta ed era sepolta in un punto preciso di un campo incolto vicino a Parona. “È roba incredibile – gli aveva rivelato il compagno di cella – Non l'ho provata, ma i tailandesi che ce l'hanno venduta dicevano che ti fa sentire un gigante”. Onestu gli aveva anche spiegato che si trattava di una droga sintetica mai vista prima e che i tailandesi l'avevano battezzata Bumba.

Dopo tre mesi di onesto lavoro a guidare il camion avanti e indietro per la pianura padana, Carletto era arrivato al limite. Una mattina di aprile spense semplicemente la sveglia e si girò dall'altra parte. Quando il suo capo lo aveva chiamato per chiedergli dove cazzo si fosse cacciato, Carlo sbraitò così tante bestemmie al telefono che i vicini chiamarono i carabinieri. Una volta chiarite le cose, si vestì, indossò un berretto e degli occhiali da sole e s'incamminò per via Venti Settembre fino a raggiungere il parcheggio della Dogana, dove rubò una Panda e guidò fino a Parona. Raggiunto il campo di cui gli aveva parlato Onestu, estrasse dalla tasca dei jeans la mappa che gli aveva fornito il compagno di cella e trovò senza fatica il punto esatto dove scavare. Prese dunque un legnetto e lo conficcò nel terreno per segnare dove si trovasse la valigia e quella sera stessa, quando il sole era ormai calato, tornò sul posto e iniziò a scavare, trovando presto quello che cercava. La valigetta era avvolta in un sacco di nylon che aveva protetto il prezioso contenuto dall'umidità. Carletto fece scattare le due serrature e la aprì.

Dentro c'erano quelli che inizialmente gli parvero otto panetti di polvere bianca disposti in due file da quattro. Guardando meglio, Carlo si rese conto che erano oggetti solidi somiglianti a delle saponette bianche con striature bluastre. Ne prese uno in mano e annusò: era inodore. Stava per riporlo quando vide che sotto erano riposte altre otto “saponette” di Bumba e notò che in mezzo a due di queste c'era un piccolo oggetto di metallo sigariforme. Il sangue gli si gelò nelle vene quando vide accendersi una lucetta rossa intermittente su di esso. “Un localizzatore!”. Lo estrasse in tutta fretta e lo gettò a terra, schiacciandolo con lo stivale. Poi chiuse la valigetta e lasciò rapidamente il posto.




Prese il lungofiume verso la città a una velocità tale che la povera Panda per poco non sbandò. Il quartiere residenziale intorno a lui era silenzioso e addormentato, le luci tutte spente. Il cielo stellato di aprile lo avvolgeva in un abbraccio sidereo e osservava la scena immobile, tranne che per una piccola stella che iniziò a sfavillare con intensità innaturale alle sue spalle. Carlo la vedeva nitidamente nello specchietto centrale. “Ma che cazzo...?”, esclamò, prima incuriosito e poi, a poco a poco, sempre più atterrito da quella visione surreale. Il bagliore aumentava sempre più, e ora l'uomo poteva chiaramente distinguere tre diverse luci: una centrale, bianca e fortissima, contornata da due lucette arancioni ai lati. Carlo aveva pensato fosse un aereo, ma presto si rese conto che non emetteva alcun suono tranne un lieve ronzio. L'oggetto volante lo stava chiaramente braccando e ormai Carlo aveva l'acceleratore a tavoletta: impossibile per lui andare più veloce di così!

Preso dal panico, sterzò di brutto a destra sfondando il guardrail, volando giù per la breve scarpata e schiantandosi infine con il muso nel fiume. Uscì dall'auto sanguinante ma integro, eppure in quel momento desiderò essere morto: voltandosi, vide infatti che le tre luci minacciose incombevano su di lui e il ronzio si era fatto più intenso. Carlo stringeva ancora in mano la valigia e così com'era, zuppo, sanguinante e stravolto, si mise a correre zoppicando lungo la passeggiata che costeggiava il fiume. L'oggetto volante non sembrava lasciargli scampo, il ronzio pareva ormai il respiro affannoso di un destriero satanico lanciato al suo inseguimento. Carletto correva, correva disperato, sicuro che da un secondo all'altro “qualcosa” lo avrebbe afferrato da dietro, come il Babau che, da piccolo, era certo si nascondesse in fondo al letto pronto ad afferrargli i piedi nel sonno. Poi i suoi occhi annebbiati catturarono un dettaglio curioso: davanti a lui, a circa un centinaio di metri, c'era una figura umana, una sagoma nascosta nell'ombra che gli stava facendo cenno di raggiungerlo. In qualsiasi altra situazione, il suo istinto da galeotto lo avrebbe spinto a cambiare direzione, ma in quel momento l'uomo del mistero era l'unica speranza che gli restava. Accelerò dunque il passo, per quanto poteva, e in pochi secondi fu davanti al suo potenziale salvatore. Si trattava di un uomo alto e allampanato, dalla carnagione grigiastra e dai tratti molto peculiari. Il suo viso era stretto e oblungo, il cranio eccessivamente voluminoso decorato da radi capelli di un biondo paglierino. Gli occhi erano molto grandi e leggermente a mandorla, gli iridi di un verde così chiaro da sembrare giallo. La sua bocca era minuscola. Indossava un completo nero avvolto da un mantello che pareva essere uscito da un film su Jack lo Squartatore. “Da questa parte”, si limitò a dire, indicando un basso tunnel che si apriva nell'argine del fiume.

Carletto percorse rapidamente lo stretto cunicolo, mentre lo straniero, chinato quasi a novanta gradi, lo seguiva in silenzio. Presto sbucarono in una camera abbastanza ampia da rialzarsi in piedi. Probabilmente si trattava di una stanza di servizio per la manutenzione delle fognature, ma a Carlo, in quello stato mentale, pareva una catacomba. Tutto intorno si aprivano altri tunnel che  conducevano ad altrettanti canali fognari disposti come una ragnatela segreta sotto la città. La stanza era lievemente illuminata e arredata con un tavolo, intorno a cui erano disposte cinque sedie. L'uomo fece sedere Carlo e si sistemò accanto. Pochi secondi dopo, da tre dei cunicoli spuntarono altri tre uomini, in tutto e per tutto identici al suo accompagnatore. Uno di questi, però, indossava un capello a cilindro e aveva un portamento all'apparenza più autorevole: Carlo pensò che dovesse essere il capo. Dopo essersi tolto il cappello e aver salutato con un breve inchino – imitato dagli altri uomini – il capo disse: “Buonasera, signor Semenzana. Mi rendo conto che in questo momento lei sia sconvolto e sopraffatto da eventi a cui un essere umano generalmente non è abituato. Ma abbiamo bisogno del suo aiuto per sbrogliare una scomoda matassa e le chiedo di prestarmi attenzione per qualche minuto. Tutte le sue domande troveranno risposta”. L'uomo procedette quindi a raccontare la storia più assurda, improbabile e delirante che Carletto avesse mai sentito in vita sua: svelò di essere il sovrano di un lontano pianeta, Zygurag, da cui era fuggito insieme alle sue guardie del corpo (gli altri tre individui) dopo aver proposto una legge che riformava in senso parlamentare una monarchia che per millenni era stata assoluta. Gli alti ufficiali dell'esercito non l'avevano presa bene e avevano iniziato a dargli la caccia per spodestarlo e giustiziarlo. Aiutato da alcuni attivisti democratici, il Re era dunque riuscito a decollare per rifugiarsi su un pianeta distante e poco conosciuto: la Terra. “Unico problema – proseguì il sovrano – il nostro mondo è un mille volte più grande del vostro e abbiamo dovuto sottoporci a un trattamento per adattare il nostro fisico alle giuste proporzioni e alla gravità terrestre. Gli oggetti contenuti in quella valigetta, che il signor Ionescu le ha spacciato per della preziosissima droga, in realtà sono un bio-catalizzatore cellulare commestibile. In poche parole, l'antidoto che ci permetterà di tornare delle nostre dimensioni”. Carlo, che era sconvolto e aveva colto solo la metà di quello che l'alieno gli aveva detto, si limitò a blaterare: “Ma... ma... la roba... Io volevo venderla, ho bisogno di quei soldi”. “E sarà adeguatamente ricompensato per il suo contributo. Ora venga con noi: non può restare qui e nemmeno andarsene da solo, altrimenti i nostri aguzzini potrebbero pedinarla, convinti che abbia ancora la valigetta. E, una volta scoperto il contrario, la ucciderebbero”.

Il gruppetto si infilò in uno degli altri cunicoli e sbucò dopo circa un'ora dal tombino di un parcheggio asfaltato, dove un quinto alieno li stava aspettando al volante di un SUV. L'auto li condusse fuori città e poi si inerpicò su per i monti Lessini fino a raggiungere un altipiano desolato, circondato da boschi fitti. In mezzo alla prateria c'era una malga abbandonata, unico segno di civiltà nel raggio di chilometri. Durante il tragitto, il Re aveva spiegato a Carlo che una navicella li avrebbe raccolti per riportarli su Zygurag. “È giunto per me il tempo di tornare a casa. I monarchici hanno subito un grave colpo da parte dei ribelli e potrebbe essere l'unica occasione per salvare il mio popolo dalla tirannia dei miei antenati”.

La notte era fresca e ventosa, la luna una timida falce che falliva nel nascondere con il suo alone l'immenso cielo brulicante di stelle. Carlo fu schiacciato dall'enormità della consapevolezza: gli umani non erano soli nell'universo e ciascuna di quelle stelle avrebbe potuto ospitare sotto il suo tiepido sguardo antiche civiltà. Il silenzio era rotto solo dal rumore del vento e di un ruscello poco distante. Era un momento bellissimo e Carlo per un po' dimenticò totalmente quanto la sua vita fosse stata un cocente fallimento da cima a fondo. Poi una raffica esplosiva centrò uno dei bodyguard alieni, quello che stringeva in mano la valigetta, il quale rovinò al suolo in un urlo di dolore. Gli altri fecero quadrato intorno al loro sovrano, poco prima che una pioggia di raggi laser li investisse. Carlo gettò una rapida occhiata per vedere da dove arrivassero i colpi e notò che fuoriuscivano dall'adiacente sottobosco. Quindi, veloce come non lo era mai stato prima, sfilò la valigetta dalle mani dell'alieno morto e si precipitò attraverso la radura fino a nascondersi nel bosco, dal lato opposto rispetto a dove si trovavano i loro aggressori.




Nel frattempo, il Re e i suoi uomini si erano rifugiati dietro la malga e i colpi erano cessati. Il silenzio tornò a cingere la radura, un silenzio ferito che recava ancora la muta eco del suo stupro al laser. Carlo attendeva immobile nel sottobosco, e lo stesso facevano gli alieni, il volto tramutato in una maschera di terrore. All'improvviso si udì un forte boato, seguito da una folata di vento così violenta da atterrare tutti quanti. Mentre si rialzava dolorante, Carletto vide cosa l'aveva causata: un gigantesco disco volante – navicella, l'aveva chiamata il Re! – volteggiava sopra l'altipiano. Carlo vide gli alieni darsi pacche sulle spalle e sorridere di gioia, lanciando grida di trionfo verso il cielo, a quei rinforzi che avevano fatto un'entrata in scena spettacolare. Ancora non riusciva a credere alla sua sfiga: aveva mollato un lavoro di merda per fare un bel colpo e si era trovato in mezzo alle cazzo di Guerre Stellari.

Poi accadde: dal punto del bosco dove si nascondevano i Monarchici, partì una raffica di energia violacea che colpì in pieno l'UFO. I volti degli alieni cambiarono repentinamente espressione a causa della brutta sorpresa. Mentre l'astronave si schiantava poco distante, colpita chiaramente da un cannone nascosto nel fitto della boscaglia, una squadriglia di soldati spaziali sbucò dal sottobosco e fece brutalmente fuoco sul gruppetto di loro simili, falciandoli in un attimo. Carletto osservava la scena inorridito al margine della radura e vide che i soldati – che indossavano delle pesanti armature che ne bardavano completamente il corpo, ma riuscivano a muoversi ugualmente con grande agilità – diressero il loro sguardo e i loro passi nella sua direzione. Poi una voce si levò come amplificata da un megafono: “Terrestre, sei circondato. Questa è un'operazione dell'unità anti-droga di Zygurag. Consegnaci la valigetta e non ti sarà fatto alcun male”.

Lo avevano fottuto! Altro che sovrano in esilio, lotta per la democrazia e pasticche per ridiventare giganti. Ma soprattutto, altro che ricompensa per aver aiutato le forze democratiche... Carlo fu percorso da una scarica di rabbia e per poco non si mise a gridare, trattenuto solamente dalla paura di essere scovato. Eppure, dopo qualche minuto, mentre se ne stava accovacciato tra i cespugli con gli sbirri stellari che ormai lo avevano quasi raggiunto, sentì quella rabbia mutare in un senso di fratellanza verso i suoi compagni spacciatori intergalattici, che lo avevano preso per il culo, sì, ma lo avevano fatto per recuperare la loro merce. Onestamente, non poteva dire che al loro posto si sarebbe comportato diversamente. Così, quando finalmente i primi due poliziotti in armatura lo avvistarono e gli puntarono contro i loro spaventosi fucili a raggi, Carlo si alzò in piedi spavaldo, aprì la valigetta e al grido di “Fanculo, sbirri alieni del mio uccello! Questa roba è mia e col cazzo che ve la do” procedette a divorare le saponette una ad una con foga animalesca. Gli alieni si misero a correre verso di lui disperati, urlando “No! No!”, mentre lui grugniva col muso infilato dentro la valigetta e la bava che gli colava dai lati della bocca.

All'improvviso, Carlo sentì il suo stomaco brontolare e uno spasmo di dolore accecante lo trafisse. Quando aprì gli occhi, gli parve che gli sbirri e gli alberi fossero leggermente, quasi impercettibilmente più piccoli. Ma non era un'illusione provocata dalla droga aliena, tutt'altro. Disgraziatamente, su almeno una cosa gli spacciatori zyguragi non avevano mentito: Carlo stava rapidamente diventando un gigante e la crescita non pareva volersi arrestare. Quando ormai aveva superato le cime degli alberi e raggiunto le nuvole più basse, l'uomo ricordò le parole di Onestu: “Ti fa sentire un gigante”, aveva detto, e non scherzava. Ai suoi piedi, vedeva gli sbirri spaziali in armatura correre forsennati verso gli alberi dall'altro lato della radura. Li vide arrestarsi di colpo e crollare in ginocchio alla vista della loro astronave che decollava verso la salvezza, lasciandoli a morire su quel sasso alieno. Poi divennero talmente minuscoli che li perse di vista, mentre continuava a crescere a dismisura superando l'atmosfera e proiettandosi nello spazio. Poco prima di perdere i sensi per la mancanza di ossigeno, fece in tempo a vedere la sua mole colossale che spaccava in due la Terra, dislocandola per sempre dalla sua orbita.

E lì sarebbe rimasto per l'eternità, osservato con stupore da ogni viandante galattico che si fosse trovato a passare di là. Uno spettacolo di morte talmente sublime che alcuni, vedendo quel gigante congelato che fluttuava con un piede incastrato nella voragine di un pianeta dilaniato, lo consideravano una delle grandi opere d'arte del Cosmo.

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