martedì 5 marzo 2013

Kármán – Un racconto a puntate




La linea, la maledetta linea. Mentre disegnava una spirale disperata di color viola in un vuoto cosmico senza tempo e senza materia, Greg Walton capì molte cose e incontrò nuovi quesiti a cui probabilmente non avrebbe mai dato risposta. Perché non aveva tempo di farlo. Perché stava per morire.

La vita aveva cominciato lentamente ad abbandonarlo da quando, dopo aver raggiunto con la sua capsula l'altitudine record di cento chilometri, aveva incontrato qualcosa di anomalo. Era come una barriera... no, non una barriera, una membrana. Ecco, “membrana” era il termine che gli sembrava più adatto: una superficie traspirante e viscida che si frapponeva tra la Terra e il Vuoto. “Dannati cervelloni – pensò quando il panico lasciò spazio alla rassegnazione – nessuno di voi ci aveva pensato, eh?”. No, se ne stavano seduti nei loro uffici a Houston, sorseggiando caffè mentre discutevano di questa o quella teoria inerente ai viaggi spaziali, i paradossi del continuum, la struttura dell'universo. Blah blah blah. Ma nessuno che si fosse fermato per un attimo a pensare che se Einstein aveva ragione, se il tempo era davvero una variabile a cui noi diamo un senso limitato come limitati sono i nostri sensi, allora avrebbe dovuto per forza esserci qualcosa tra il nostro mondo e l'Esterno.

Ora Greg Walton l'aveva scoperto sulla sua pelle, aveva infilato prima la testa e poi tutto il corpo in quell'immensa vagina galattica. La pena per aver voluto guardare al di là dei confini stabiliti per la sua razza dal buon Dio era la sua imminente dipartita. A casa non lasciava nessuno: una ragazza con la mania dell'ordine che passava le giornate a spolverare i mobili e gli chiedeva di indossare le pattine quando lui andava a trovarla per scoparsela. Un cane pigro e vecchio e sovrappeso. Un appartamento pulcioso con l'aria condizionata guasta, popolato di cimici e scarafaggi. E nessun servizio al TG, nessuna intervista, niente. Da questa impresa – “Un passo enorme per l'umanità”, l'aveva definita il direttore Smitherson – non aveva ricavato fama e manco un dollaro, perché doveva essere assolutamente segreta. “I rossi ci hanno fottuto con quel bavoso bastardo di Gagarin – gli avevano spiegato nel briefing – Ora noi fotteremo loro. Saremo i primi a mandare un uomo sulla cazzo di luna!”. Ma, e qui stava la fregatura: “Questa missione deve rimanere strettamente top secret. Se fallisse, diventeremmo lo zimbello del mondo intero. Tu, caro Greg, sarai un pioniere. Dopo di te ne verranno altri e gli Stati Uniti d'America conquisteranno lo spazio!”.

“Un cazzo”, mormorò Greg nel buio umido del suo casco. Intorno a lui quel mondo viscoso ed etereo lo avvolgeva in un abbraccio soporifero. “Sto perdendo i sensi”, pensava, mentre galleggiava nell'eternità verso il suo destino. Poi fu l'oscurità: niente più stelle, niente più membrana viola, niente più Terra lontana. Solo tenebre fittissime e la sensazione come di soffocare nel sonno. Come un incubo funereo dal quale fosse impossibile risvegliarsi anche dimenandosi come cani rabbiosi tra le lenzuola. “E' fatta – fu l'ultimo pensiero di Greg – sono morto”.





Ma poi vide i caleidoscopi e il buio fu inghiottito dalla luce più intensa che avesse mai visto in vita sua. Solo che “vedere” non rendeva esattamente l'idea: era come se la luce lo pervadesse a livello subatomico, come se la sua potenza fosse tale da farsi percepire dalle stesse cellule del suo corpo ancor prima che il nervo ottico riuscisse a traghettare l'informazione al cervello. Dopo lo shock iniziale, Greg cominciò lentamente a distinguere le prime timide forme, finché la vista non gli tornò quasi del tutto e l'astronauta poté finalmente guardarsi intorno. Il mondo che lo circondava non era certamente il suo. Steso su un terreno roccioso dai riflessi bluastri, Greg osservava una volta celeste che celeste non era proprio. Nubi di pesanti gas rossi e arancioni danzavano sopra di lui, e attraverso i rari sprazzi di sereno l'uomo intravvide i caleidoscopi nel cielo, dove avrebbero dovuto esserci le stelle.

Greg si sollevò e si mise a sedere. Ispezionò la tuta per bene, per vedere se ci fossero dei tagli che lo avrebbero sicuramente condannato a morte in quell'atmosfera aliena, ma non ne vide. “Meno male”, pensò, mentre si grattava un fastidioso prurito sulla fronte stempiata. D'un tratto, sbiancò. Il casco! Il casco era sparito e lui stava respirando senza fatica l'aria di quel mondo sconosciuto. Inspirava ed espirava, con il cuore che batteva come un tamburo nel petto e il sudore che gli correva sul volto e fin dentro al colletto della tuta. Presto capì che l'atmosfera non lo avrebbe ucciso e, superato lo spavento, riprese a guardarsi intorno. Fu allora che la vide: davanti a lui, poco più in basso rispetto alle rocce sulle quali era seduto, c'era una spiaggia. Una spiaggia dalla sabbia – sabbia? – di un rosa intenso e innaturale, lambita dalla risacca di un mare color argento e composto da un liquido ben più denso dell'acqua. Greg ruppe gli indugi e si alzò in piedi, per poi dirigersi a passo spedito verso il bagnasciuga. Con il guanto della tuta toccò la superficie di quello strano liquido e ne depositò alcune gocce sulla rena. Erano goccioline dense, delle palline d'argento dalla consistenza inconfondibile: si trattava di mercurio. [Continua]

Nessun commento:

Posta un commento